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Biografia e finzione

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Ciò che si può notare facilmente osservando gli scaffali di una libreria o facendosi suggerire delle nuove uscite da un libraio, è che il numero delle opere di narrativa che partono o afferiscono al mondo della biografia sono in aumento e che spesso anche libri che raccontano storie distopiche o storiche, partono da ricordi o visioni dell’autore che trasforma la sua immagine in personaggio letterario o in narratore. Ma cosa sta diventando la biografia? È ancora lo strumento per raccontare solo le proprie memorie? O forse ci si potrebbe chiedere: cosa sono oggi le memorie? Scrisse, a tal proposito, Derrida in ricordo di Paul de Man – saggio sull’autobiografia:

Lo «scacco» della memoria non è dunque uno scacco; la sua apparente negatività, la sua stessa finitudine, ciò che riguarda la sua esperienza di discontinuità e di distanza, possiamo anche interpretarla come un potere, l’apertura stessa della differenza, persino di una differenza ontologica. […]
Se la memoria apre l’accesso a una siffatta differenza, ciò non accade semplicemente secondo lo schema classico (innanzitutto Hegeliano) che lega l’essenza (dell’ente) al suo essere-passato […]. La memoria di cui stiamo qui parlando non è infatti essenzialmente rivolta verso il passato, verso un presente passato che sarebbe realmente e anteriormente esistito. Essa soggiorna presso le tracce al fine di «preservarle», ma tali tracce sono tracce di un passato che non è mai stato presente, tracce che non si sono mai date, esse stesse, nella forma della presenza e restano sempre, in qualche modo, a venire, venute dall’avvenire, venute dal futuro.

Ciò su cui si interroga Derrida in questo passaggio parte dal concetto stesso di memoria e da quella differenza che si genera, in ognuno, tra il passato che abbiamo vissuto e il passato storico che non abbiamo vissuto, ma del quale comunque ci facciamo carico. Un passato storico che custodisce delle tracce che non ci appartengono totalmente, poiché non le abbiamo vissute, ma solo ereditate.

Ma qual è il punto di questo discorso di Derrida, e come si lega alla letteratura contemporanea e al biografismo letterario? In un certo senso raccontare il passato che ci è appartenuto, cioè il nostro presente divenuto passato, è un modo per inseguire le tracce di qualcosa che non possiamo possedere integralmente se non nella misura dell’invenzione. La memoria si potrebbe interpretare come lo strumento per dare consistenza ed esistenza a qualcosa che non ha contorni così evidentemente delineati. Dice ancora Derrida in una intervista:

Il soggetto non c’è mai stato per nessuno, ecco ciò che volevo cominciare a dire. Il soggetto è una favola e non lo dico per smettere di prenderlo sul serio (è il serio stesso), quanto piuttosto per interessarsi a ciò che questa favola suppone della parola e della finzione convenuta.

Verrebbe da domandarsi cosa ci sia di più finzionale di un soggetto raccontato attraverso una biografia? Ma rimettendo insieme i pezzi di queste due citazioni bisogna anche chiedersi di che strano materiale sia fatta la memoria dalla quale si attinge per scrivere, e di cosa sia fatta la memoria dalla quale si attinge per leggere. C’è sicuramente, tra lo scrittore e il lettore, una memoria comune che consente a entrambi di creare coordinate di comprensione, ma questa memoria comune è a sua volta essa stessa una finzione letteraria, quel passato che non è mai stato realmente presente ma che al contrario è un luogo di incontro di tracce letterarie e che di per sé rappresenta una narrazione.

In questo contesto, questo evento storico perpetuo, in letteratura, diventa uno spazio di incontro tra il tipo di narrazione che non ci è mai stata presente e il passato che al contrario è stato presente nell’autore o nell’autrice; nel lettore o nella lettrice.

Questo incontro avviene con consapevolezza nei padri di questo nuovo biografismo letterario, come ad esempio Carrère quando in Propizio è avere ove recarsi, scrive:

Prendiamo una qualsiasi scena famosa della sua vita [di Gesù]: per esempio, la comparizione davanti al governatore romano Ponzio Pilato. Questa scena ce la possiamo soltanto immaginare: resta il fatto però che non è immaginaria. Non è nemmeno dubbia, come la resurrezione di Lazzaro o l’adorazione dei Magi. Ci sono storici romani che la confermano. È realmente avvenuta. Si è svolta in un punto dello spazio e del tempo che non conosciamo con precisione assoluta ma che nondimeno era, come tutti i punti dello spazio e del tempo, un punto assolutamente preciso. Era un certo luogo, era una certa ora. Il clima era in un certo modo. Quei due uomini, Ponzio Pilato e Gesù, non erano figure mitologiche, divinità o eroi, sospese in un mondo di fantasia in cui poiché nulla è reale, tutto è possibile. Erano un funzionario coloniale e un visionario indigeno: uomini come voi e me, che avevano una certa faccia, portavano certi abiti, parlavano con una certa voce. Il loro incontro non si è svolto, come le cose della nostra fantasia, in un modo o in un altro infinitamente variabile, ma come si svolge ogni cosa sulla terra, in un certo modo che esclude tutti gli altri; e di questo modo, di questo unico modo che ha avuto il privilegio di passare dal virtuale al reale, in realtà noi non sappiamo quasi nulla. Ma quell’incontro è avvenuto. Ci hanno ricamato sopra tonnellate di fiction e di leggende, ma esso non appartiene alla fiction o alla leggenda: appartiene alla realtà. E dunque può essere illusorio, ma è perfettamente legittimo cercare di darne una rappresentazione realistica. Come diceva Kafka: «Io sono molto ignorante: cionondimeno, la verità esiste».

[…]

Quel che mi chiedo, in fondo, è se esista un criterio interno per poter dire di un ritratto se è somigliante, di un aneddoto se è autentico. Io penso di sì, ma devo ammettere che si tratta di un criterio squisitamente soggettivo: è quello che si dice «suonare vero», è quello che si chiama «accento di verità». Lo senti, non lo puoi dimostrare.

Con Carrère il problema del rapporto tra biografia e storia si intreccia in maniera ancora più esplicita rispetto a ciò che già Derrida aveva solo accennato: che rapporto esiste tra ciò che abbiamo vissuto (che in senso più ampio si potrebbe definire come storie/ la storia) e la realtà?

È importante sottolineare che questo tema non è una assoluta novità nell’ambito letterario né tantomeno in quello filosofico o storico. Già Pirandello, per citare un classico, si interrogava all’interno del breve scritto intitolato Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, sul rapporto tra verità e verosimiglianza. Scrive Pirandello:

Credo che non mi resti che di congratularmi con la mia fantasia se, con tutti i suoi scrupoli, ha fatto apparir come difetti reali, quelli ch’eran voluti da lei: difetti di quella fittizia costruzione che i personaggi stessi han messo su di sé e della loro vita, o che altri ha messo sù per loro: i difetti insomma della maschera finché non si scopra nuda.

Né tantomeno è nuovo il concetto di biografia. Ciò che appare nuovo è nascosto nel rapporto che oggi si è creato tra l’autore, il narratore e la realtà di ciò che viene raccontato, ciò che appare nuovo è la consapevolezza della costruzione della propria biografia. Le sue radici sono ovviamente nel postmoderno, ma a quel bagaglio si è aggiunto qualcosa. Per comprendere la traccia di questo percorso è necessario passare da Mark Fisher che in The Weird and the Eerie, parlando di Lovecraft scrive:

L’interpolazione presente nei racconti di Lovecraft di fatti storici ed esempi di finta erudizione produce anomalie ontologiche simili a quelle della narrativa «postmoderna» di Robbe-Grillet, Pynchon e Borges. Ponendo fenomeni realmente esistenti sullo stesso piano ontologico delle sue invenzioni, Lovecraft derealizza il fattuale e realizza il fittizio. […] Lovecraft esemplifica ciò che Borges si limita ad «affabulare»: nessuno potrebbe mai credere che la versione del Don Chisciotte di Pierre Menard esista davvero al di fuori del racconto di Borges, mentre più di un lettore ha contattato la British Library chiedendo una copia del Necronomicon, il testo fittizio di antiche dottrine cui molti racconti di Lovecraft fanno riferimento. Lovecraft genera un «effetto di realtà» limitandosi a mostrare pochi frammenti del Necronomicon. […] Lovecraft sembra aver intuito il potere della citazione, la capacità di un testo di apparire reale più sotto forma di citazione che di originale.

Qui il punto messo al centro da Fisher non è tanto la capacità di Lovecraft di de-realizzare il fattuale, quanto la messa in discussione della credibilità dell’autore del testo. È sulla scelta letteraria che Borges lavora per mettere in piedi la finzione. Non risulta essere Borges meno credibile di Lovecraft come autore, quindi è su qualcosa di diverso che bisogna ragionare per riuscire a capire che tipo di lavoro bisogna fare per ottenere quell’«effetto di realtà», così simile a ciò che Carrère chiamava «accento di verità». Lo strumento in entrambi i casi è la forma saggistica. La citazione è una traccia, un segno che il lettore segue, che nasce principalmente nel saggio, nei testi accademici, nei quali è data per presunta la competenza dell’autore e la sua credibilità.

Quindi i due elementi – la credibilità dell’autore e la manipolazione di una forma letteraria, quella saggistica – consentono di lavorare sulla percezione di realtà che il lettore concede allo scrittore. Ultimo elemento spesso utilizzato è la fotografia all’interno del testo. In questo caso lo sguardo di Coetzee sulla scrittura di Sebald è utile a comprenderne l’utilizzo:

Sebald non si definiva romanziere – preferiva chiamarsi prosatore -, ma il successo del suo esperimento nondimeno dipende dalla sua capacità di staccarsi dall’aspetto biografico e saggistico – ciò che è prosaico nel senso corrente della parola – per approdare al regno dell’immaginazione. La misteriosa facilità con cui riesce a operare quello stacco è la più limpida dimostrazione del suo genio.

Ed è precisamente su questa cessione di credibilità legata all’autore e alla forma che bisogna interrogarsi per capire cosa succede con le biografie oggi. È lo stesso Coetzee che utilizza questi strumenti per ovviare alla classica forma saggistica, mantenendola, tuttavia, all’interno della narrazione. In questo senso ne La vita degli animali sono presenti dei racconti di Coetzee ai quali fanno seguito alcune risposte di intellettuali, scienziati e saggisti, ma è in particolare su quella di Peter Singer che bisogna soffermarsi, perché Singer evidenzia gli strumenti utilizzati dal premio nobel sudafricano, rispondendo anziché in forma saggistica, in forma narrativa. Nel racconto scritto da Singer tra un padre, che dovrà andare a Princeton per dialogare con Cootzee, e sua figlia, afferma:

«Sai che il mese prossimo vado a Princeton per rispondere a quello scrittore sudafricano J.M. Coetzee, che tiene una singolare conferenza sulla filosofia e gli animali. Questa è la sua conferenza. Solo che non è affatto una conferenza. È un racconto su una scrittrice di nome Costello che tiene una conferenza in una università americana».
«Vuoi dire che lui si alzerà e farà una conferenza su qualcuno che fa una conferenza? Très post-moderne».
«Cos’ha di postmoderno?»
«Oh, papà, dove sei stato negli ultimi dieci anni? Sai Baudrillard, e tutta quella roba sulla simulazione, abbattere le distinzioni tra realtà e rappresentazione, eccetera? E pensa a quante possibilità di giocare con l’autoreferenzialità!»
«Di’ pure che sono antiquato, ma preferisco tenere verità e finzione ben separate. Vorrei solo sapere: come dovrei rispondere a un testo così?»
[…]
«Se coetzee non ha argomenti migliori a sostegno del suo egualitarismo radicale, per te non sarà un problema dimostrare che valgono poco»
«Ma sono argomenti di Coetzee? Ecco il punto. Ecco perché non so come regolarmi per rispondere a questa cosiddetta conferenza. Sono gli argomenti di Elizabeth Costello. La trovata narrativa di Coetzee gli permette di tenersi a distanza. E c’è questo personaggio, Norma, la nuora, che fa tutte le obiezioni ovvie a quello che dice la suocera. È davvero una splendida trovata. Elizabeth Costello può criticare tranquillamente l’uso della ragione, o la necessità di avere chiari princìpi e divieti, senza che Coetzee si comprometta con le sue affermazioni. Magari in realtà lui condivide i dubbi molto legittimi di Norma in proposito. Coetzee non deve nemmeno preoccuparsi troppo della logica della conferenza. Quando nota che Elizabeth Costello non sa più che pesci pigliare, fa dire a Norma che Elizabeth Costello non sa più che pesci pigliare!»
«Molto Astuto. Una replica non è facile. Ma perché non provi a rispondere usando lo stesso trucco?»
«Io? Quando mai ho scritto racconti?»

Singer gioca esattamente sulla inconsapevolezza del lettore che anche il saggio è una forma narrativo/letteraria ed è esattamente in questa forma narrativa che si colloca la nuova biografia di tipo saggistico, sia per via del passaggio che anche in molti accademici sta avvenendo tra il noi e l’io narrativo, sia per la centratura differente che il soggetto intellettuale umanista ha all’interno della società. È sicuramente nello spazio di questa prospettiva che si può iniziare a parlare di una biografia saggistico-narrativa di tipo differente, uno stile letterario che è nato nel postmoderno, ma che sta prendendo la sua strada autonomamente andando a riformulare le prospettive classiche del rapporto tra l’autorevolezza di chi scrive, la veridicità di ciò che scrive e il rapporto tra testo e realtà.

Per tornare a Derrida è importante, infatti, evidenziare l’orizzonte che questo discorso mostra:

La maggior parte dei romanzi autobiografici mi paiono del resto ben poco autobiografici. Cerco di guardare a ciò che nell’autobiografia eccede sia il genere letterario sia il genere discorsivo, e al limite l’autos; cerco di interrogare ciò che nell’autos scopagina il rapporto a sé, ma sempre in una esperienza esistenziale singolare, se non ineffabile, almeno intraducibile, ai limiti della traducibilità. […] Le memorie, in una forma che non sarebbe ciò che in generale si chiama “memorie”, sono tutto quello che mi interessa. Corrispondono alla folle idea di conservare tutto, di raccogliere tutto nel proprio idioma.

In questo senso la nuova biografia si mostra capace, più che di raccontare se stessi, di costruire se stessi attraverso la pluralità di voci che costituisce l’io narrativo, ormai completamente disgregato dopo il post-moderno. Una nuova visione di sé ricercata e mai totalmente raggiungibile: trasparente. Il soggetto diventa così il massimo grado di creazione letteraria, e la realtà il corollario di questa creazione.

Sicuramente autori come Carrère, Coetzee, Ernaux o gli italiani Siti, Terranova, Roghi (così come molti altri, sia italiani sia stranieri), saranno in grado di mostrare se questa prospettiva o queste possibili direzioni, si concretizzeranno in nuovi stili e nuovi generi o meno.

Luca Romano è nato nel 1985 a Bari dove insegna filosofia ai bambini. Scrive di letteratura e filosofia per Huffington Post Italia, Finzioni Magazine e Logoi.ph.

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